Le forchette parlanti di Bruno Munari

E se la vita fosse design?

Fortunatamente, la vita non è solo design altrimenti è vero che aiuterebbe a semplificare le cose complicate, ma è anche vero che complicherebbe ulteriormente anche le cose più semplici. O forse è meglio dire che nella vita a volte ci imbattiamo nel buon design che ci aiuta migliorare e a dare rispose concrete ai nostri bisogni e alle nostre necessità e a volte, forse sempre più spesso, ci imbattiamo nel cattivo design, figlio dell’ignoranza, dello strizzare l’occhio a fluidi modaioli privi di anima e di sostanza o, ancora peggio, in designer e progettisti presuntuosi disposti ad infliggere pene e sofferenze all’incauto uomo della folla che viene in contatto con uno dei suoi prodotti.

A volte design è solo un miserabile sostantivo che serve a giustificare dei costi per l’utente finale decisamente inaccettabili, cosa che il mercato sembra tenere sempre più spesso in debito conto.

Design, infatti, è una parola di origine anglosassone molto abusata negli ultimi tempi: spesso finisce per coprire le vergogne di prodotti lacunosi, a volte a far cattiva mostra in fiere e showroom che somigliano più a mercatini dell’’artigianato (ben inteso, non quello del movimento di William Morris dell’Arts and Crafts) dove ci possiamo imbattere in prodotti, o meglio manufatti, figli della genuina e spontanea creatività di molti bricolaires della domenica che al posto di imbrattare tele o andarsene a pesca sul lago con la station wagon tedesca e l’attrezzatura al completo si dilettano nell’assemblaggio di lampade improbabili, sedie progettate per esseri venuti dallo spazio e quant’altro.

Il design, quello vero, deve saper sorprendere, dare risposte, innovare, dare emozioni come tutte le forme esperenziali di vita che ci appagano: vedere un tramonto, ammirare un’opera d’arte e saper “utilizzare” quel tramonto e quell’opera d’arte. Dare concretezza ad una promessa non è cosa facile, si sa, perciò il design deve essere una disciplina e le discipline richiedono tutte ricerca, dedizione, capacità di analisi, rigore e anche una buona dose di coraggio nel saper interpretare – come i sognatori “pregog” dei romanzi di Dick – quello che ancora non è ma che presto sarà. Non dimentichiamoci che le risposte che diamo con il design oltre che etiche e comportamentali, e quindi permeanti nella società, attendono principalmente riscontri economici: è la poesia che sposa la funzione, che sposa il mercato.

Concludendo questa breve riflessione sul design, esorto tutti i “buoni” designer ad inviare i loro lavori, i loro progetti e a non dormire sugli allori.

Ci siamo guadagnati con anni di fatica, di passione, di ricerca dei nostri predecessori il titolo di “buon design” associato al nostro Paese ma credo che questo ormai faccia già parte della storia che è ferma, da quasi trent’anni, agli ultimi Compassi d’Oro e ai passati veri ed acclamati riconoscimenti internazionali. Nel frattempo, il mondo si rinnova, si pone domande, attende risposte e Giò Ponti, Bruno Munari, Dante Giocosa, Gino Valle, Marco Zanuso, Ettore Sottsass, Mario Bellini, Achille e Pier Giacomo Castiglione, Angelo Mangiarotti e Vico Magistretti, solo per citarne alcuni del periodo d’oro, rischiano di finire imbalsamati insieme alle loro Brionvega, alle loro Artemide, alle loro Flos e alle loro Olivetti in qualche passeggiata archeologica, o come busti nei viali soleggiati del Pincio.

Pubblicato su Agorà Magazine l’8 ottobre 2007

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